Oggi è il terzo giorno qui a Subotica, tranquilla cittadina della Vojvodina, ai confini tra Serbia e Ungheria. Sveglia presto, l’orologio segna le 8.30 quando siamo già in macchina con destinazione Horgos, ultimo avamposto in territorio serbo prima della frontiera/fortezza Europa.
La gente è triplicata numericamente rispetto al primo giorno; le frontiere non sono state più riaperte dalla mezzanotte della giornata precedente e una grande folla di uomini, donne e bambini aspetta con anzia un segno, il momento propizio per passare l’ennesimo confine.
Lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi è una realta difficile da osservare che non può lasciarti indifferenti; un confine trasformato in un improvvisato campo profughi. Tende, cumuli di vestiti e cibo sparso ovunque, persone in strada in cerca di acqua, cibo, informazioni o forse semplicemente di contatto con visi rassicuranti che non siano quello di poliziotti armati.
Sono con Joe, il nostro mediatore siriano, e ci accostiamo alla gente chiedendo loro da dove vengono, di cosa hanno bisogno e quali sono le loro destinazioni che desiderano raggiungere. Intorno a me bambini che giocano ad acchiapparsi e si rincorrono tra la folla che ogni tanto si forma a seguito di distribuzione di cibo e vestiario. La gente qui è a maggioranza di origine siriana e afgana ma si vedono adesso anche piccoli gruppi di somali e curdo-iracheni. Tra loro tanti giovani, molti avranno poco meno della mia età, sembrano in gita ma in realtà stanno scappando da una guerra che loro non vogliono vivere ne tantomeno combattere.
Parlo con Abdnouri, un ragazzo siriano che ha 30 anni e parla un inglese stentato. E’ qui in attesa di capire se il confine verrà aperto ma ha tanta voglia di raggiungere i fratelli e la sorella in Olanda. Mi racconta che ha lasciato un’altra sorella in un villaggio non lontano da Damasco. Troppo lungo, troppo pericoloso il viaggio mi dice, preferisce farla arrivare in un’altra maniera, meno rischioso e anche meno costoso. Eppure in questo viaggio ci sono tante donne, con diversi figli sulle spalle o come Hamida che è addirittura in stato interessante e sta tutto il giorno dentro la tenda in attesa che il confine venga riaperto e possa proseguire il suo viaggio con destinazione Germania. Al campo c’è bisogno di beni di prima necessità, indispensabili alla sopravvivenza umana, ma anche di cose che usiamo ogni giorno in maniera automatica, come i caricabatterie, fondamentali per comunicare con i familiari.
Arriva il momento della distribuzione di kit, c’è tanta gente e c’è bisogno di ordine in questi momenti. Divento l’addetto al servizio di ordine e di smistamento per la fila; una è, infatti, riservata a donne e bambini mentre l’altra è solo per gli uomini. Non è facile gestire tali situazioni; la fame e la voglia di accaparrarsi anche solo un pezzo di pane diventa spesso motivo di risse e colluttazioni. Riesco ad instaurare una comunicazione di base con alcuni ragazzi afgani che sono in fila e li richiamo all’ordine con un sorriso. Sono interessati al mio badge, forse incuriositi dalla mia foto o forse solamente scoprire da quale parte del mondo appartiene la mia faccia, a quale nazionalità essere associato, magari a quella che loro ogni momento sognano di raggiungere. Non parlano molto l’inglese, si aiutano fra di loro nelle domande che porgo con sana curiosità; hanno dai 18 ai 22 anni, ma alcuni ne mostrano anche un paio di meno; mi chiedono se è meglio la Germania o la Svezia, mi chiedono informazioni sul cibo che riceveranno e se i confini saranno riaperti a breve. La fila scorre davanti a me, molte delle loro domande resteranno probabilmente senza risposta in quanto la situazione cambia in modo repentino come il numero delle persone che arrivano in questo campo improvvisato.
Finisce la distribuzione, molti hanno un sorriso tirato e soddisfatto nell’avere raggiunto l’obiettivo altri, invece, chiedono ancora qualcosa ma non è rimasto nient’altro che sacchetti vuoti. Non è facile calcolare quante persone puoi raggiungere, il numero è molto variabile ed indefinibile.
Non resta che darci un arrivederci alla prossima volta con la speranza che probabilmente queste persone avranno raggiunto il loro obiettivo di aver passato l’ennesima frontiera del loro interminabile viaggio fatto, con il loro unico mezzo messo a loro disposizione; la speranza, quella che li ha portati ad oltrepassare Paesi fino ad allora, a molti, sconosciuti.